il participio passato di esigere

Il Participio passato di Esigere – Capitolo 1

IL PARTICIPIO PASSATO DI ESIGERE

L’illusione di rinnovata energia, una scarica da defibrillatore, se ne andò senza destare troppo scalpore. Cuscino, letto, calore e ancora cuscino, saliva posticcia. L’emulazione del grembo materno era utile a sconfiggere ogni misero tentativo di inizializzare il proprio sistema motorio ed alzarsi dal letto per iniziare una nuova giornata. Una nuova giornata. A Michele piaceva la parola “nuova”. La trovava una deliziosa presa per il culo da parte di tutte le cose che lo riguardavano, come il mondo, la storia, la filosofia, le parole della gente. Tutto aveva sempre meno significato ed allo stesso tempo, le cazzate, diventavano fondamentali per unire la parola “nuova” con “giornata”. Ne abbiamo vissute molte di giornate eppure continuiamo a viverle commettendo gli stessi errori, duplicandole in serie, un macabro omaggio alla produzione di massa.

Era molto difficile, per Michele, alzarsi la mattina affrontando tutti questi massicci pensieri. Il motivo per il quale preferiva stare a letto lo si trova nella poca voglia, da parte di Michele, di parlare con se stesso, troppa fatica, troppa pigrizia, troppa paura di entrare in argomenti troppo seri. La relazione andava bene così, non si facevano troppe domande, viaggiavano sempre insieme, ogni tanto si lasciavano andare a del buon sesso senza però entrare troppo in intimità. Sia Michele che se stesso sapevano cosa volevano l’uno dall’altro e sapevano quale argomento di discussione avrebbero dovuto sempre evitare. Patti chiari, esistenza lunga.

Capelli lunghi, castani, lisci, a volte raccolti, a volte no. Occhiali tondi, grossi, vecchi, con un po’ di nastro a tenerli uniti, un nastro adesivo marrone, da pacchi. 32 anni a Dicembre, questa cosa di essere nato a Dicembre lo metteva continuamente in crisi dinanzi a conversazioni del tipo “quanti anni hai?” “Eh ma di che millesimo sei?” “Quindi sei entrato nei 33”. Si sforzava ma gli faceva male la testa. La testa gli faceva spesso male ma mai avrebbe ceduto a pasticche, pillole e altri medicinali. Non perché fosse un combattente del sistema ma piuttosto, perché il costo di questi surrogati di felicità lo faceva sobbalzare pensando alla cifra che avrebbe potuto convertirsi in rum o in libri brutti trovati ad un mercatino dell’usato. Ed ecco che il suo rimedio era “dell’acqua con un po’ di limone, grazie”. Laurea in Filosofia, dottorato in Filosofia Teoretica ed amore profondo per Platone, Parmenide, Calogero e il Capitano Kirk. Michele non amava radersi, la sua barbetta scura, con lievi sfumature rossastre cresceva in maniera caotica sulla sua faccia pulita. Una volta si rase per il compleanno di sua nonna e non lo fecero entrare in casa, sicuri che si trattasse di un venditore di aspirapolveri. Odiava non sembrare se stesso. Aveva gli occhi scuri e spenti.

Solito corridoio, soliti bidelli imbalsamati nella loro ingenua esistenza, solito implacabile orologio elettronico ad intermittenza, soliti studenti forcaioli titubanti, indecisi se entrare o meno. Il Preside dondolava per i corridoi fermandosi spesso a raccogliere sigarette, ad annotarsi graffiti, cedimenti strutturali, episodi di pigrizia sul lavoro e tutte quelle cose che potevano dargli soddisfazione. Michele sapeva come evitarlo, gli sarebbe bastato fare qualche corridoio in più, passando dalla sede distaccata che portava alla palestra che attraverso il magazzino dava sull’aula magna la cui seconda uscita riportava davanti all’ufficio del Preside. Un ufficio sempre vuoto, al piccolo, grasso, ansimante, sudato e ansioso preside non piaceva stare in ufficio. Questo Michele lo sapeva, avrebbe saputo come entrare in classe senza informare il Preside del suo ennesimo ritardo. Non ne valeva la pena, tutto aveva poco senso, se non l’avesse fermato quel giorno, sarebbe successo un altro giorno e così via. Ogni “nuova giornata” come le altre.

“Professor Camussi, lei è in ritardo?”

“Uh? Salve signor Preside”

“Non mi ha risposto”

“Se le rispondo faccio tardi per entrare in aula”

“Ma è già tardi?”

“Lei dice?”

“Io Dico”

“E cosa dice?”

“Mi sta facendo perdere tempo, Camussi”

“Anche lei lo sta facendo perdere ai miei studenti, Egregio”

“Se ne vada”.

Michele scosse la testa, troppo, troppo, troppo facile. La vita era uno sbadiglio. Entrò in aula, fece una smorfia. C’era puzzo di adolescente là dentro, putridi adolescenti eccitati di continue nuove giornate. “Bessi apri queste cazzo di finestre che c’è puzzo di capra”. Michele si mise a sedere senza guardarli in faccia. Quando gli arrivò la lettera che lo informava della temporanea assunzione come supplente presso il Liceo Classico della sua città fu felice. La felicità durò poco più di 10 minuti, Michele era una persona intelligente.  Si rese conto che la sua inutile felicità era data solo dalla disperazione in cui la vita di aspiranti insegnanti versava. Fin da piccolo aveva sempre saputo una cosa “Voglio fare il maestro”. Ambiva a comprendere i problemi dei più fragili, voleva entrare nelle vite dei suoi studenti, stravolgere le loro esistenze, aprirgli gli occhi, diventare importante, migliorare la loro percezione, sviluppare il loro senso critico. Quando frequentava il Liceo, fantasticava spesso sulle sue future classi.

“E ci sarà la ragazza provocante che piacerà a tutti e che sarà la prima a rimanere incinta una volta finite le superiori e ci sarà il ragazzo timido con tanto potenziale che nasconderà segreti e ci sarà il duro dal cuore tenero che nasconderà problemi e ci sarà la sognatrice che vorrebbe fare la scrittrice ma che non ce la farà mai e ci sarà quello che penserà solo alle donne senza mai scoprirle veramente e ci saranno quelli emarginati che chiederanno aiuto e quelli indomiti da domare e quelli stolti da istruire e quelli geniali da distruggere e quelli alla pari da allenare e quelli che si ricorderanno di me e che quando sarò vecchio mi offriranno un caffè mentre io gli parlerò per la centesima volta della logica e della definizione di esistenza e gli dirò sempre le solite cose ma in modo diverso così che i più intelligenti possano capire che sono vecchio ma non rincoglionito…”

Le fantasie in realtà, erano praticamente infinite. Benzina per la vita, droga per andare avanti, astinenza da evitare, causa morte.

La sua classe era normale, le sue classi erano normali. Ragazzini tempestati di consuetudini e luoghi comuni ma banali. Nascosti dietro a trasparenti cliché. Non interessanti, tutto qua.

“Che c’è da fare oggi?”

“I promessi sposi, professore” disse quella vestita da secchiona

“Se vuole, ci facciamo i cazzi nostri tutta l’ora, o quel che ne rimane” disse quello vestito da simpatico

“Mica vorrà interrogarci?” disse quella vestita da cheerleader

“Non si dicono le parolacce, sono simbolo di umorismo stupido”

“Cazzi?” rispose quello vestito da simpatico

“No, Ora”

Non capirono ma si misero a ridere, nemmeno lui capì la sua battuta ma gli era piaciuta molto.

– Purtroppo! – disse Federigo, – tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! –

Il ragazzo vestito da assiduo giocatore di videogames alienanti lesse il paragrafo.

“Esigere dagli altri, Luca che ne pensi?”

“Di cosa professore?”

“Del fatto che sia più o meno necessario esigere dagli altri qualcosa”

“Dipende… Se serve…” rispose quello vestito da assonnato

“Dipende da cosa?”

“Non saprei…” rispose sempre quello vestito da assonnato

“Aprite la finestra, devo fumare”

Il solito Bessi, quello vestito da sudato, si alzò e spalancò le polverose vetrate dell’aula. Polvere, rumori della città, rumori inutili, aria tiepida, riscaldata. Si accese la sua sigaretta, li guardò. Scosse la testa, non avrebbe mai voluto essere al loro posto, a malapena riusciva a starsene al suo. Socchiuse gli occhi, aspirando il più forte possibile. Odiava quando i raggi del sole rivelavano la polvere presente nell’aria. Si sentiva soffocare.

“Qual è il participio passato di esigere prof?” disse uno vestito da bambino.

La sigaretta divenne amara, un amaro insopportabile. Continuò a fumare, iniziò a sentire il cuore palpitare, poteva percepire ogni minima pulsazione, il collo pulsava, la testa pulsava, iniziò a sentire caldo e forse anche a sudare. Fece finta di niente.

“Qual è professore?” ribadì quello vestito da bambino

Lo guardò. Era un ragazzino anonimo, uno da cinque e mezzo. Non uno di quelli che si applicava poco ma che poteva dare di più, semplicemente uno da cinque e mezzo. Non sembrava interessarsi alla scuola più di quanto si potesse interessare a videogiochi, ragazze, sogni e calcio. Non avrebbe dovuto fare quella domanda, non era nelle sue corde. Non gli apparteneva quel tipo di domanda e non avrebbe dovuto interessarsi alla risposta. Ma quella domanda, era vera. Michele l’aveva udita bene, nitida, pulita, agghiacciante e spietata.

“Non lo sa professore?” lo rincalzò quello vestito da… Un momento. Non era più vestito da bambino. Era nudo. Stupidi bachi che diventano farfalle, così, velocemente. Michele gettò la sigaretta. Odiava le farfalle.


Ecco qua la prima parte del racconto “Il Participio passato di Esigere” credo di portarlo avanti con appuntamenti settimanali anche se già so che non sarà molto lungo. Nel caso vi interessasse ho un curioso, credo, modo di scrivere. Mi metto davanti allo schermo, chiedo a me stesso di scrivere qualcosa e parto. Questa “tecnica” risulta essere poco professionale e, anche per questo, qualche anno fa capii che non sarei mai stato in grado di scrivere un romanzo. Però credo che condividere le strane storie che a volte bussano alla mia testa, sia molto divertente e quindi lo faccio. Mi diverto ed è bello divertirsi. Questi racconti non hanno altro scopo che essere letti e quindi, nel caso vi ammalaste e decideste di spargerli sul web vi chiedo solo di citare l’autore, Io.
Siccome credo che sia faticoso, per qualcuno, leggere da schermo, vi lascio anche il PDF così ve lo potete scaricare e farci ciò che volete (nei limiti della decenza, mi raccomando).

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